Il Salotto Bianconero

La squadra perfetta secondo Gianni Mura

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Lido Vieri, il portiere marinaio
che parava senza noia: "Ma ora usano i piedi"


Lido Vieri, il portiere marinaio che parava senza noia: "Ma ora usano i piedi"

Pubblichiamo, per la prima volta su internet, dodici articoli che Gianni Mura ha scritto lo scorso inverno per le pagine sportive del lunedì di Repubblica, sulla sua squadra ideale del passato: ma la formazione, allenatore compreso, non è stata scelta solo per la tecnica. Questa è la prima puntata

Sul grande terrazzo, al settimo piano, tra fiori, piantine di basilico, rampicanti, c'è un tubo di gomma collegato con il rubinetto dell'acquaio, e mi arriva addosso un flash, una foto di Lido Vieri di quando giocava nell'Inter. E si faceva una doccia con un tubo di gomma, solo che intorno c'era la neve. Vieri guarda me che guardo il tubo e ride.

"Sì, anche adesso che vado per i 75. E sa perché ? Perché quand'ero piccolo in casa non avevamo l'acqua calda e io mi sono abituato a quella fredda, diciamo che me la sono fatta piacere per necessità, poi mi sono abituato e avanti così".

Vieri nasce a Piombino, ma i genitori erano elbani, di Portoferraio. "Mio padre faceva il pescatore. Poi è saltato fuori un posto alle ferrovie e la famiglia ha traslocato sulla terraferma. Io sono diventato portiere per caso, il mio sogno era andare per mare. Quand'è arrivata l'offerta del Torino avevo già tutte le carte in regola per imbarcarmi come mozzo su un mercantile che da Genova andava in Brasile. Il pallone era un divertimento, un gioco. Non pensavo di poterci campare. Spesso giocavo il primo tempo da attaccante, per fare gol, e il secondo da portiere, per difendere il vantaggio. La prima squadra è stata a Venturina, 13 km a piedi all'andata e 13 al ritorno. Lì c'era e c'è ancora un ristorante famoso, da Otello. Sull'Aurelia, si fermavano i tir come le macchine di lusso. Specialità cinghiale alla maremmana, ma anche pesce. Là un bel giorno si fermò a mangiare il dottor Lievore, che curava il settore giovanile del Toro. E là per caso c'era a mangiare anche il dottor Biagi, un farmacista, il mio presidente, e mi segnalò".

Convocato per un provino, viene preso.

"Partii diviso dentro: cominciava un'avventura ma lontana dal mare, quello l'avevo perso. Erano passati pochi anni da Superga, il Toro stava cercando di ricostruirsi. La società pensava al mangiare e al dormire, per i primi due anni ho preso mille lire a settimana. La metà la mandavo a casa, per il resto m'arrangiavo. Un biglietto del cinema costava 80 lire. La domenica andavo allo stadio gratis. Il nostro portiere era Lovati, quello della Juve di Viola. Due buoni portieri. Anch'io ero un giovane portiere allo stato brado, tutto istinto. Allasio mi fece esordire in A, poi mi prestarono al Vigevano in B perché facessi esperienza. Ci andai con Sergio Castelletti, il terzino biondo che poi finì alla Fiorentina. Povero Sergio, era di Casale, è morto anche lui per colpa dell'amianto".

Una volta i portieri si dividevano in due categorie: freddi e caldi. Freddi erano Jascin, Giuliano Sarti, Cudicini, Zoff. Caldi Moro, Ghezzi e Albertosi. Caldissimo Vieri.

"Come temperamento sì , ero fumino, e mi sono preso le mie belle squalifiche. Ma il bello del ruolo, il lato romantico se vogliamo, era nella sua diversità. A me piaceva uscire di porta e arpionare il pallone con una mano sola, fin sul dischetto del rigore uscivo per respingere di pugno. E allora era regola che ogni pallone nell'area piccola fosse del portiere. Adesso vedo che molti hanno la catena corta ma, soprattutto, che pochissimi cercano di bloccare il pallone. Quando finalmente ho avuto un preparatore, la sua domanda più requente era: perché non l'hai bloccata? E, in caso di respinta, sempre di lato, mai frontale. Oggi sembra che queste cose siano finite in soffitta. Sono cambiati i palloni, sono cambiate le regole non sempre in meglio. Io cancellerei quella che porta rigore ed espulsione sull'uscita del portiere: una volta gli attaccanti ti saltavano, per non farti e non farsi male, adesso ti vengono a cercare, fanno di tutto, per sbatterti addosso, e ci credo: hanno tutto da guadagnare, al massimo rischiano un giallo per simulazione".

Lei aveva il mito di Ghezzi, ho letto.

"Sì, il kamikaze. Ma mi piaceva molto anche Bepi Moro e uno che non è diventato famosissimo: Doriano Carlotti, un elbano, giocava nel Piombino ed è stato il primo dei miei idoli. Stavo dietro la sua porta. Era secco secco, non alto, un coraggio da leone nelle uscite. Quando qualche squadra di A bussava per Carlotti, il Piombino sparava cifre pazzesche e così non s'è mai mosso. Quando ha smesso ha aperto una macelleria".

Non si stupisce di vedere tanti portieri stranieri in serie A?

" E' vero che da noi c'era una grande scuola, ma nulla dura in eterno, tutto cambia. Pensi al Brasile: per decenni solo un grande portiere, Gilmar, poi ci è toccato veder vincere un mondiale a Taffarel, uno che si tuffava di pancia e non di fianco, poi è arrivato Julio Cesar. A me piace anche Neto, della Fiorentina. In assoluto, degli stranieri, Handanovic. Quanto a noi, Buffon era e resta di un'altra categoria. Promette bene quel Perin, un po' pazzo e per questo mi piace. Ma il ruolo è cambiato da quando i portieri hanno dovuto imparare a usare i piedi, diventando meno diversi, più uguali agli altri. Ho l'orgoglio di aver allenato, incoraggiato e sempre difeso un grande portiere: Luca Marchegiani. Certo se vedo le foto di quando giocavo io e di adesso sembra passato un secolo. I guanti, per esempio. Non li ho usati per anni o al massimo quelli di lana se pioveva.A mani nude sentivo di più il pallone, anche col freddo. Poi sono arrivati quelli zigrinati, come le coperture delle racchette da ping pong, e adesso ci sono certi guanti che sembrano usciti dai laboratori della Nasa, ma non è il guanto che fa il portiere, e nemmeno la maglia rossa o gialla. Ai miei tempi, solo nera, o grigia. Colpiva di più la fantasia: se l'immagina se poteva esserci un ragno arancione, così come c'era il ragno nero. Jascin? Un grandissimo, ma non so perché gli preferivo Beara, lo jugoslavo" .

Tre squadre in tutta la carriera: Torino, Inter e Pistoiese: cosa le resta?

"Il Toro è stata la squadra della mia vita, ci sono arrivato ragazzino e ne sono uscito uomo. Dividevo la camera con Ferrini, eravamo due tipi di poche parole. Lui parlava con l'esempio, coi fatti. Mi sarebbe piaciuto avere una sola maglia nella vita. Quando Pianelli mi cedette all'Inter, era convinto di avermi fatto un regalo. Invece mi misi a piangere e spaccai a pugni la porta dello spogliatoio. Ai tifosi granata devo il soprannome: Pinza. Lo stesso di Bodoira, il portiere che aveva preceduto Bacigalupo. Un onore. All'Inter con Invernizzi vincemmo uno scudetto in rimonta ma mi sentivo in esilio, anche se l'ambiente era simpatico. Alla Pistoiese andai perché mi avvicinavo a casa e perché la Pistoiese mi garantiva lo stesso ingaggio dell'Inter. Presidente era Melani, detto il Faraone. Anche lui aveva fatto soldi col petrolio. Volevamo un brasiliano, avevo chiesto Junior e arrivò Luis Silvio. Gran velocità, ma tirava in porta solo di piatto, anche da fuori area".

In Nazionale, solo 4 presenze.

"Posso dire la verità? Non m'importava nulla di giocare in Nazionale, e lo dicevo anche. Ho fatto tre partite e mezza, tre senza prendere gol: 1-0 in Turchia, 1-0 in Austria, 3-0 al Brasile. A Sofia subentro ad Albertosi sull'1-2 e becco il terzo. Sono campione d'Europa e vicecampione del mondo senza aver mai visto non dico il campo ma la panchina. Per me convocazioni, ritiri, trasferte di un mese mezzo, come in Messico, equivaleva a togliermi il mare. Avevo la barca già pronta per andare a pesca dei palamiti verso Montecristo e Pianosa. Bearzot insistette, era stato mio capitano, la mia chioccia direi. Avete già Albertosi e Zoff, che ci vengo a fare? Portate Pizzaballa, è uno tranquillo, magari gli fa anche piacere. A me no, anche perché non ho mai voluto saperne di giocare a carte, quindi mi portavo una valigia di libri e Settimana enigmistica".

Anche con lei si poteva partire da una foto nel ritiro messicano. C'è Valcareggi tra due sorridenti Mazzola e Rivera e dietro si vede Vieri, su una sdraio, che sta leggendo "La noia" di Moravia.

"Ne avevo anche altri, uno di Ambrogio Fogar sul suo giro del mondo in barca, altri d'argomento marinaro. Leggevo molto, avevo imparato a memoria anche qualche poesia di Garcia Lorca. Poi Fogar l'ho conosciuto di persona, e anche Jacques Mayol che s'era sistemato all'Elba, a Capoliveri. Prima di ogni immersione sgranocchiava due teste d'aglio, diceva che era il suo segreto. Ma il suo segreto vero è perché si sia appeso a una trave senza lasciare una riga".

S'annoiò molto, in Messico?

"No, poteva andar peggio. Mi allenavo seriamente, semmai era Riva che saltava gli allenamenti con la scusa del dormire. Con Valcareggi avevo una certa confidenza, lo chiamavo zio Uccio e non mister perché era stato giocatore del Piombino quando io ero raccattapalle. Zoff mordeva il freno e veniva a sfogarsi da me. Stai calmo Dino, gli dicevo, perché Uccio farà giocare Albertosi anche se ha la febbre a 40. Così andò, anche se Albertosi fece qualche errore coi tedeschi e se fosse dipeso da me col Brasile avrebbe giocato Zoff. Ma non dipendeva da me, che da Valcareggi avevo già ottenuto una sorta di libera uscita. Già all'arrivo c'erano file di ragazze tifose fuori dal nostro albergo. Lido, ci tolgono tranquillità, fai come vuoi ma pensaci tu. Ci pensai eccome. Finchè non vidi una ragazza favolosa, bruna, che girava su una Mustang rossa. Occhiate reciproche, colpo di fulmine, m'invita a casa sua. Casa è dire poco, una specie di castello in mezzo a un immenso giardino, militari all'ingresso".

E chi era?

"La figlia del vicepresidente. Del Messico, non della federcalcio. Una famiglia molto alla mano, dopo qualche giorno entravo e uscivo a tutte le ore. Graciela mi disse che era troppo giovane per avere la patente, guidava senza. Un pomeriggio, dopo aver visto che c'era una bella sala cinematografica con comode poltroncine, invitai tutta la squadra a vedere un film italiano, non ricordo il titolo. Credevo che certe cose potessero succedere solo in Svezia, almeno così si vociferava, quanto a libertà di comportamento. Fu bello tutto, e non dolorosa la partenza, sapevamo tutti e due perché era cominciata e quando sarebbe finita".

Il 4-3 come lo visse?

"Dalla tribuna presidenziale, con tanto di cucina. A un certo punto tutti scommettevano, nei supplementari. C'erano sul tavolo mucchi di soldi alti così".

E adesso cosa fa?

"Il pensionato, ultimo incarico allenatore dei portieri nel 2005 alla Fiorentina. Allo stadio non vado più da anni: se il Toro perde mi viene il magone, soffro".

Se il Toro perde, perde anche in tv.

"Sì, ma almeno non vedo le facce della gente, magari tifosi che ho conosciuto. Di stadi ne ho girati anche troppi. L'unica novità, se vogliamo, è che ho voltato le spalle al mio mare, che credevo essere unico. Da quando ho sposato una calabrese, ho scoperto un altro mare stupendo. Abbiamo una casetta a Bagnara, da giugno a ottobre mi trova là, sul mare".

Il minimo, per uno che si chiama Lido.

"Questa è un'altra storia. Mio padre voleva chiamarmi Nilo, ma il parroco disse di no. Ripiegò
su Lido".
Anagrammando Lido Vieri, appassionato di enigmistica, basta spostare una "i" dal cognome e si ottiene idoli veri. De profession bel zoven, avrebbe chiosato paron Rocco. Nelle foto in bianco e nero, Vieri ha una faccia tra Raf Vallone (che pure giocò nel Torino) e Luigi Tenco. Erano anni in cui i calciatori matti erano l'1 e l'11. Poi si è perso il conto

Pubblicato su Repubblica il 24/3/2014
(29 giugno 2014)

Edited by Cocteau Twins - 26/7/2014, 13:40
 
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Tarcisio Burgnich, la roccia che saltò con Pelè: "Il mio calcio senza creste"


Tarcisio Burgnich, la roccia che saltò con Pelè: "Il mio calcio senza creste"


Pubblichiamo, per la prima volta su internet, dodici articoli che Gianni Mura ha scritto lo scorso inverno per le pagine sportive del lunedì di Repubblica, sulla sua squadra ideale del passato: ma la formazione, allenatore compreso, non è stata scelta solo per la tecnica. Questa è la seconda puntata

VIAREGGIO - IN tre ore di conversazione con Tarcisio Burgnich, detto Roccia, è inevitabile toccare l'argomento-difensori. E, in sottordine, del vivaio friulano che fu. Ma prima devo controllare un episodio: è vero che il Catania, cui serviva un difensore, convocò per un provino lui e Bruno Pizzul e preferì Pizzul? "E' vero, ma non me la presi più di tanto perché poi andai alla Juve". Fu Armando Picchi a chiamarlo Roccia. In una partita con la Spal arrivarono a contendersi il pallone Novelli, un'ala veloce, e Burgnich.

Novelli rimbalzò a tre metri e rimase a terra come l'avesse investito un camion. "Ti capisco, sei andato a sbattere contro una roccia", andò a consolarlo Picchi, che era un ex.

Burgnich nasce centrocampista e nelle giovanili dell'Udinese gli cambiano ruolo. Come tutti, aveva cominciato sul campetto del paese, Ruda. Il padre, Ermenegildo, lavorava alla Snia, a Torviscosa. Aveva fatto la guerra del '15-18 con la divisa degli austriaci (era in Marina, a Grado). "Da bambino tenevo al Toro. Dopo Superga, in classe piangevo e i compagni mi prendevano in giro. Tra noi giocavamo il derby della Mole, le milanesi erano una realtà lontanissima. Facevamo il pallone riempiendo di fieno secco le calze di nylon, erano passati gli americani. Oppure palleggiavamo con le pallette da cricket che lasciavano gli inglesi. Per vedere un pallone vero ce n'è voluto".

Anche gli avversari (da Pulici a Riva) hanno riconosciuto a Burgnich grande lealtà, unita alla grinta. Eppure si pensa a quegli anni, moviola zero o quasi, come a una specie di Far West.
"Lo dice chi non li ha visti. I nostri allenatori ci esortavano a essere corretti, specie in area di rigore. Bisogna dire che gli arbitri erano meno permissivi, ai miei tempi. E poi, giocando addosso all'uomo, non potevi fargli molto male. Roba minima, spintine, calcettini, ma senza rincorsa. Oggi vedo falli molto più violenti: piedi a martello, entrate a forbice in scivolata, gomitate al viso. Ora parlo da difensore: ho visto gialli e rossi assurdi, impossibile saltare stando sull'attenti o con le mani dietro la schiena. Alzare le braccia fa parte del saltare. E' la gomitata premeditata, la carognata è da punire, non il salto e le braccia aperte. Una domenica a San Siro con una gomitata Riva mi ha buttato giù due incisivi e un premolare. Appena ho potuto gli ho reso il fallaccio, e poi mi sono scusato. Non ho mai avuto problemi con gli avversari. Se parliamo di Riva, di Boninsegna, di Pascutti, tutta gente che oggi segnerebbe 40 gol a campionato. Gigi era forte e tecnico, Bobo furbo e coraggioso, Ezio una faina, se te lo scordavi un attimo faceva gol".

Burgnich in qualche modo è legato a due fotografie: Pelè in elevazione segna di testa, Pascutti in tuffo segna di testa a mezzo metro da terra.
"Più bravo Pascutti, su quel pallone ero in anticipo io, forse l'ho anche toccato con la mano. Lui non so come ha fatto, mi è quasi sbucato da sotto la pancia. Pelè va su benissimo, ma si vede che io salto storto perché sto recuperando la posizione dopo che Valcareggi ha stabilito di cambiare marcatura: io su Pelè e Bertini su Rivelino. In Messico era grandissimo Brasile, secondo solo a quello del '58. Dopo il 4-3 coi tedeschi ho passato tre giorni a letto, per recuperare. In fondo, abbiamo tenuto il pari fino a 20" dalla fine. Loro avevano sempre giocato a quote più basse, sui 1500, noi sempre oltre i 2000, anche questo forse ha fatto la differenza" .

Lei ha giocato tre mondiali: perché in Messico bene, in Inghilterra e in Germania no?
"Semplice. Per colpa nostra. In Messico eravamo un gruppo vero, unito. Le altre volte c'erano i clan. Milan e Inter in Inghilterra, più una spruzzata di Bologna. Le polemiche tra Rivera e Picchi moltiplicate dalla stampa. Un giorno, prima delle convocazioni, ero andato in camera di Fabbri, caldeggiando l'impiego di Picchi. Mi disse che non poteva, sarebbe stato come cedere a una parte della critica. Prima di ogni gara Fabbri parlava per un'ora prospettando le peggiori eventualità. Io con la Corea non ho giocato, ma ricordo bene cosa disse negli spogliatoi: ragazzi, se perdiamo ci tocca andare tutti a vivere nel Ghana. E via di questo passo, togliendo serenità. Ci siamo tirati su in fretta, vincendo gli europei nel '68 e arrivando secondi in Messico. Ma nel '74 ci siamo ricascati. In Germania era Sud contro Nord, ha cominciato Juliano, ha proseguito Chinaglia. Io con la Polonia sono uscito sullo 0-0, Szarmach mi ha spinto mentre difendevo un pallone a fondocampo, mi si sono piantati i tacchetti, distorsione al ginocchio. Al posto mio è entrato Wilson e dopo 5' Szarmach ha fatto l'1-0. Ma comunque non saremmo andati lontani. Non eravamo una squadra vera".

Veniamo al vivaio friulano. Una volta c'erano friulani in tutte le squadre, anche se qualcuno li chiamava razzapiave. Ora sono spariti. Ha una sua teoria?
"L'ho maturata allenando. Molti che arrivano al calcio sono ragazzi dotati di una sfrontatezza che in Friuli è meno diffusa. Allenamento alle 10, ben che andasse arrivavano alle 9.59. Noi, campioni d'Italia e del mondo, eravamo sul campo un'ora prima. A fare il torello o anche a raccontarci barzellette, ma guai a tardare cinque minuti. Idem dopo l'allenamento, nessuno andava via come se dovesse timbrare il cartellino. E tenga conto che a massacrarci erano i ritiri. Col Mago, in campionato, dal venerdì era al lunedì mattina, e poi di nuovo dal martedì al giovedì se c'era una Coppa. Qualcuno dei miei giocatori m'ha detto: mister, in allenamento ai vostri tempi non facevate un cazzo. Bene, ho detto, allora vi farò fare la metà di quello che facevamo ai nostri tempi. Li ho stesi".

Come si diventa grandi difensori?
"Sostanzialmente bisogna essere umili. E poi sempre concentrati. L'attaccante è un ruolo di fantasia, il difensore no. Ti tocca sempre la seconda mossa, ti muovi in base a come si muove l'avversario. Lui vuole fare, tu impedirgli di fare. Uno dei miei primi allenatori, Comuzzi a Udine, mi diceva: con un occhio e mezzo guarda l'uomo, con l'altro mezzo occhio il pallone. Oggi il massimo nel mondo è Thiago Silva. Non gli manca nulla. Ha corsa, fisico, visione di gioco, tecnica, tiro. Io ero un difensore umile e veloce, me la sono cavata anche contro Gento. Chi ha messo più in difficoltà è stato Dzajic nel '68. Alla prima partita, poi gli ho preso le misure".

E i nostri difensori attuali?
"A me l'unico che piace davvero è Barzagli. Mi ricorda i nostri tempi, è un bel difensore all'antica. Non velocissimo, ma compensa col mestiere e l'attenzione. Bonucci è più bravo tecnicamente, ma gli piace specchiarsi e ogni tanto fa quelle che ai miei tempi si chiamavano maldinate. Non me ne voglia il buon Cesare. Chiellini non mi piace: eccessivo sia quando le dà che quando le prende, troppi interventi in scivolata, generoso, non discuto, ma con tendenza a distrarsi. Ranocchia lo seguivo già quando giocava nell'Arezzo. Tecnicamente valido. Di testa più forte nell'area avversaria che nella sua, un po' com'era Facchetti. Sullo scatto breve non c'è. Ma, sui difensori in generale, non è tutta colpa loro, credo che manchino gli allenamenti specifici, e si capisce dalle ammucchiate in area: gente che si tira, si abbraccia, si prende a pugni, ci vorrebbero cinque rigori a partita per fargli cambiare musica, ma non vedo in giro l'arbitro capace di fischiarli" .

Cosa pensa di Balotelli?
"Che ha un tesoro nei piedi e lo sta buttando via. E sa di chi è la colpa? Dei primi allenatori che ha avuto da ragazzo. Ai primi segni di bullismo, bastava che lo lasciassero due partite in tribuna e avrebbe capito. Invece a loro serviva per vincere le partite, e sorvolavano su tutto. Questo è il risultato. Balotelli è un grande giocatore in potenza ma non un campione. Gli manca la continuità, la sintonia con i compagni. Un campione non è a sprazzi, un campione c'è sempre. Messi è un campione. Di quelli che potrebbero insegnare calcio. Rivera cresciuto all?ombra di Schiaffino, Boninsegna ha imparato da Meazza a calciare i rigori, Paolo Rossi andava a studiare le finte di Hamrin, Vieri pensava a Moro e a Ghezzi. Un Roby Baggio, invece di metterlo dietro a una scrivania, non era più utile sul campo, a mostrare come si tirano punizioni e rigori ai ragazzini?".

Cosa guarda volentieri in tv?
"In Italia, solo la Juve. Spesso l'ho contata con tutti i giocatori nella sua metà campo. I primi difensori sono Tevez e Llorente. Se non giocasse così, la Juve perderebbe più partite. Conte lo sa, e per questo gioca così. Sono belli i tempi di esecuzione delle singole fasi, l'armonia dei movimenti delle linee, la partecipazione di tutti. Detto questo, oggi si gioca molto più chiusi, con difese a 5 ma dichiarate a 3. Molte squadre fanno un vero catenaccio ma guai a definirlo così. Se io ripenso alla grande Inter, c'erano solo tre difensori puri, ovviamente non conto Facchetti. Povero Giacinto, quante camere abbiamo condiviso. Era una gara a chi parlava di meno. Avevamo tanta roba da leggere, io libri di storia, lui romanzi. Buonanotte Tarci, 'notte Cipe, alle 22.30 si spegneva la luce. Molti infortuni non dipendono oggi solo dal gioco duro, ma dal fatto che molti non rispettano i tempi di recupero".

Che ricordo ha di Herrera?
"Una persona perbene. Era stato povero, molto povero, e ci esortava a non buttare via i soldi. Aveva la mania dei ritiri, multava chi giocava a carte, un po' di biliardo lo tollerava, ma col suo arrivo è stato come salire su un'astronave del futuro. Aveva istituito per i giocatori dei corsi d'inglese, cinquant'anni fa, e anche di yoga, che lui praticava tutti i giorni. La soddisfazione più grande è la vittoria sul Real a Vienna. Abbiamo sconfitto i nostri idoli, le nostre figurine".

E quanto vi ha fruttato?
"Molto meno del milione di euro che il Psg avrebbe promesso ai suoi: quattro milioni di lire".

Ha rimpianti?
"No. Quando l'Inter mi ha giudicato troppo vecchio, mi ha mandato a Napoli e a Napoli, con la zona di Vinicio, mi sono proprio divertito. Non c'erano grandissimi nomi, ma eravamo uniti e per un pelo non abbiamo vinto lo scudetto, nel '75. Quando sono partito da Udine per Torino, non pensavo che dal calcio avrei avuto tutto quello che ho avuto. Da giocatore. Da allenatore, mi chiamavano squadre costruite un po' alla carlona, sempre nella parte destra della classifica, a volte con un piede nella serie inferiore. Ragionamento dei presidenti: se andiamo in B è colpa di Burgnich. Era più colpa loro, ma non importa. Se mi giro indietro, sono felice" .

(seconda puntata) Pubblicato su Repubblica il 7/4/2014

(19 luglio 2014)
 
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Aristide Guarneri, lo stopper gentiluomo che fece gol a Jascin. "La mia vita con il Mago"



Pubblichiamo, per la prima volta su internet, dodici articoli che Gianni Mura ha scritto lo scorso inverno per le pagine sportive del lunedì di Repubblica, sulla sua squadra ideale del passato: ma la formazione, allenatore compreso, non è stata scelta solo per la tecnica. Questa è la terza puntata


CREMONA - Il calcio di una volta lo riconoscevi anche dai nomi. La difesa dell'Inter: Tarcisio, Aristide, Giacinto, Armando. Come dire Burgnich, Guarneri, Facchetti, Picchi. Nella casa di Guarneri, dietro al Museo del Violino, c'è una saletta dei cimeli: coppe (vinte anche a tennis), medaglie, e una bella testa di bambino, in bronzo.

"L'ha scolpita mio padre Giuseppe, avevo otto o nove anni, la guerra era finita da poco e anche i tempi grami. Mio padre era scultore e pittore, con la passione della Grecia classica. Sarà per questo che mi ha chiamato Aristide, e una mia sorella Cnedia, un'altra Lia, che è già più normale. Era in gamba, mio padre. Ha scolpito il monumento ai Caduti di Cefalonia e qui al cimitero di Cremona, in quello che chiamano viale degli artisti, ci sono diverse opere sue, la più bella per me è quella di un suo amico cacciatore col cane al fianco. Con la guerra, la patria non chiedeva solo oro, andavano bene tutti i metalli, così per mio padre era difficile lavorare. Gli era rimasta una bici scassata e il cane da caccia. Usciva e tornava con un fagiano, una lepre, e così avevamo qualcosa da mettere sotto i denti. Non ero molto portato agli studi, ho smesso con la terza commerciale, davo una mano a mia sorella che aveva una bancarella di frutta e verdura al mercato. E giocavo a calcio, all'oratorio da ala destra, ero piccolino e veloce, poi sono cresciuto molto tra i 15 e i 16 anni. Così mi ha preso il Codogno come stopper, il mio ruolo naturale. E poi ho avuto fortuna. In un anno sono passato dalla Promozione all'Inter, passando per il Como, serie B".

Fortuna in che senso?

"Nel senso che se avessi avuto i soldi per comprarmi una macchina, forse sarei rimasto al Como tanti anni. Mi spiego: a Como l'allenatore era Lamanna, un argentino che teneva molto alla disciplina. Io e altri arrivavamo a Como in treno, o in corriera. La patente ce l'avevano solo in tre e Lamanna il venerdì prima di ogni partita si faceva dare le patenti per evitare che quei giocatori andassero a far baldoria, magari portandosene appresso altri. Sì, perché a Como qualche tentazione c'era: i grandi alberghi, le turiste. Un venerdì, al momento di consegnare le patenti, un mio compagno dice che l'ha dimenticata a casa, un altro che l'ha persa. Lamanna li lascia fuori per punizione e fa esordire due ragazzi. Uno ero io, terzino sinistro. Ed è come terzino sinistro che mi compra l'Inter. Esordio con la Spal: 8-0, cinque gol di Angelillo. Uno spettacolo, Angelillo: 33 gol in una stagione, è ancora record. Era dappertutto, come Di Stefano. Poi si è un po' perso, ma quell'anno da solo valeva il biglietto".

Quando diventa titolare?

"Dopo un derby vinto dal Milan 5-3 con quattro gol di Altafini, che fece impazzire Cardarelli, il suo marcatore. Nello spogliatoio piangeva, metteva il magone a vederlo. In settimana Cappelli, l'allenatore, dice a Invernizzi: se ripresento Cardarelli, i tifosi mi mangiano. Domenica da stopper giochi tu. E lì, altro colpo di fortuna, Invernizzi dice: dottore, perché non prova Guarneri? E' giovane, è veloce, è sveglio. Così sono entrato io, nel mio vero ruolo, e non sono più uscito".

Insiste molto sulla fortuna, mi pare.

"Veda lei. Esordio in Nazionale, 3-0 al Brasile in amichevole. Segno un solo gol in maglia azzurra, ma vale l'1-0 alla Russia del grandissimo Jascin. Eccolo lì, il pallone, son riuscito a salvarmelo. Azione di Mazzola sulla sinistra, mi porto in area perché penso che crossi alto, invece s'inventa un'azione in slalom e la mette in mezzo all'area rasoterra, più o meno all'altezza del dischetto del rigore. Io arrivo di corsa e tiro forte rasoterra, di mezzo collo destro. Palla vicino al palo, Jascin non può farci nulla. Era la prima partita dopo la Corea. E comunque io i gol dovevo impedirli, più che segnarli. Non andavo quasi mai avanti nemmeno sui corner a nostro favore, perché Jair aveva la fissa di segnare direttamente dall'angolo, quindi era inutile .

La chiamavano lo stopper gentiluomo, giusto?

"Sì, e son cose che fanno piacere. Mai un'espulsione in serie A. E una sola quand'ero riserva dell'Inter, nel Trofeo Berretti. Mi tenevano, per svincolarmi ho dato una manata in faccia all'avversario. Espulso. Ho sempre pensato che si deve essere corretti, nel gioco. Io puntavo tutto sull'anticipo, e poi sapevo che se mi andava via l'uomo avrebbe trovato Picchi. La fortuna a volte crea anche la grandi squadre. L'Inter, per esempio: Picchi era un mediano, nella Spal giocava terzino destro. Facchetti era giudicato troppo alto per fare il terzino, allora le ali destre erano tutte piccoline, tipo Bertogna, e Giacinto all'inizio pativa. Ma poi sono stati gli allenatori avversari a dire all'ala di marcare Facchetti. Un difensore che segna una sessantina di gol senza tirare rigori o punizioni non s'era mai visto. Poi, naturalmente, il salto di qualità l'abbiamo fatto col Mago in panchina e con Suarez in campo".

Due cose sul Mago.

"Cambio totale di allenamenti. Eravamo abituati a giri di campo e saltelli, tre palloni nuovi, tre così così e gli altri sformati dalla pioggia. Il primo giorno col Mago ne abbiamo trovati trenta, tutti nuovi, di quelli bianchi e neri. Col Mago tutto era mirato alla velocità: di gioco, di reazione, di pensiero. Taca la bala, appunto. Sapeva caricarci. A Burgnich diceva: Gento è molto veloce, ma solo all'inizio, poi lo prendi. Il giorno della finale col Real mi ha detto: stai attento a Puskas, è come se avesse due mani al posto dei piedi, con la palla fa quello che vuole. L'unica volta che mi ha saltato ha centrato il palo. Fortuna. Ricordo poco prima dell'inizio Mazzola pallidissimo che guardava quelli del Real come fosse in chiesa. Suarez va da lui e gli fa: guarda che a questi non dobbiamo chiedere l'autografo, dobbiamo giocarci e batterli. Con Herrera il nostro problema erano i ritiri: dal venerdì alla domenica compresa. E l'alimentazione: a pranzo riso e bistecca, o pollo. A cena verdura bollita o minestrone di verdura e pollo, o bistecca. Un bicchiere di vino tollerato a pranzo, a cena no".

Dura, eh?

"Ma grazie a Picchi ci si organizzava nel pomeriggio con panini che nascondevamo in camera. Solo una volta ci siamo ribellati al ritiro, quando siamo tornati dal Sudamerica come campioni del mondo. Il mago ci voleva portare in ritiro perché il mercoledì c'era una partita. Picchi è andato da Moratti e ha ottenuto l'annullamento del ritiro. Solo che si è dimenticato di dirlo a Herrera: in ritiro c'erano solo lui e i massaggiatori".

C'era un segreto in quell'Inter?

"In campo ci aiutavamo senza gelosie. Fuori non so. Penso che Suarez e Corso non si amassero molto, perché Mariolino poteva sbagliare venti passaggi di fila e restava l'idolo dei tifosi, ma se Luisito ne sbagliava uno lo fischiavano. Pensi che quando Jair è arrivato, giovanissimo, pativa la nostalgia, non gli piaceva il clima, il cibo, la città. Allora Facchetti se l'è preso in casa non so quanto tempo, Jair si è ambientato ed è diventato una colonna nel gioco dell'Inter. Oggi quanti farebbero come Giacinto?".

Gli avversari più difficili?

"Altafini di sicuro: forte, veloce, tecnico. Ma anche Harald Nielsen. O quelli che non stavano mai fermi, come Maraschi. L'elenco sarebbe lungo: Vinicio, Manfredini, Da Costa, Torres, Albert, Asparukov".

Perché una volta avevamo tanti buoni difensori e adesso no?

"Molti dicono che dipenda dalla zona, secondo me no. La zona richiede più attenzione. Forse dipende dai fondamentali. Ai miei tempi era bravo chi anticipava l'attaccante, o saltava più in alto, adesso tra blocchi e cinture credo ci sia meno tecnica. Comunque, io dal calcio sono fuori. Ho tre figli, sei nipoti, sempre la stessa moglie, Lucia, sposata nel '68. Luna di miele record: una notte a Venezia. E poi subito a Roma, per gli europei, vinti".

La Corea?

"Scintillanti amichevoli d'avvicinamento, pessima sistemazione a Durham, in una scuola, con camerette singole che sembravano celle di frati. E Fabbri da subito divide titolari e riserve. Credo che volesse vincere tutte le partite. Vinciamo col Cile, con la Russia basterebbe dare un po' di riposo a qualcuno. Così diventa decisiva la partita con la Corea, l'unica che ho giocato. Bulgarelli recuperato troppo in fretta: si fa male e restiamo in dieci. Almeno un pari lo avremmo meritato. Ma quel giorno a Middlesbrough la fortuna guardava da un'altra parte".

La carriera

Aristide Guarneri nato a Cremona il 7 marzo 1938. Dopo Codogno e Como, gioca nella grande Inter dal '58 al '67, per tornarci nel '69 dopo due stagioni al Bologna e al Napoli: in nerazzurro ha vinto 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali. Ha chiuso la carriera alla Cremonese.
In nazionale ventuno presenze e un gol: esordio nel '63 contro il Brasile, convocato per i Mondiali del '66 e vittoria negli Europei del '68.

(Terza puntata) Pubblicato su Repubblica il 3/2/2014

(22 luglio 2014)
 
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Giacomo Losi, difensore partigiano: "Il calcio oggi è Far West"

Pubblichiamo, per la prima volta su internet, dodici articoli che Gianni Mura ha scritto lo scorso inverno per le pagine sportive del lunedì di Repubblica, sulla sua squadra ideale del passato: ma la formazione, allenatore compreso, non è stata scelta solo per la tecnica. Questa è la quarta puntata

Giacomo Losi nel campo dei ricordi ha il numero 3, ma andrebbero bene anche il 2, il 5 e il 6. Tutti i ruoli della difesa li ha coperti, semmai c'è da chiedersi come riuscisse, lui alto 1.68, a marcare giganti come John Charles. Losi è nato a Soncino, in riva all'Oglio, un centro che dista una trentina di chilometri da Brescia, da Cremona e da Bergamo. Ed è catalogato tra i borghi più belli d'Italia, per la sua Rocca sforzesca e le mura che racchiudono il centro abitato.

"Una volta c'era l'acqua nel fossato intorno alle mura. Ma per noi bambini la festa era il fiume, anche se da festeggiare c'era poco. La mia famiglia era povera, io e mio fratello dormivamo nello stesso camerone dei genitori. Mio padre Pietro lavorava in una cooperativa di facchini che riempivano e svuotavano i grandi silos. Mia madre Maria, era in filanda. E di quelle filandere toste, che andavano a discutere col padrone. Me la ricordo, nel primo dopoguerra, che si dava da fare a organizzare i comizi di Pajetta. Mio padre non ha mai voluto saperne della tessera del Fascio. Era di famiglia socialista. Così una notte del '43 sono venuti gli squadristi a prenderlo in piena notte. Stai tranquilla, hanno detto a mia madre, lo mandiamo a lavorare per la patria e sei fortunata, perché ti spedirà a casa dei bei soldini. Mai visti, ma il peggio è che per quasi due anni non abbiamo più saputo nulla di lui, dov'era, se era vivo, e un giorno torna che quasi non lo riconosciamo, magro come un chiodo, la barba lunga, era scappato e ha dovuto nascondersi. Era stato a scavare in un campo di lavoro in Cecoslovacchia, di fianco c'era un campo di concentramento. Non ha mai voluto parlare di quel periodo".

Piccola pausa. Credo stia pensando a quel che ha visto e patito suo padre. Per allontanarlo dai brutti pensieri gli chiedo dello sport, di come ha cominciato. "Nel dopoguerra, e non era così semplice arrivarci. Mio padre aveva 8 fratelli: tre morti in guerra, anzi dispersi, uno morto appena tornato a casa, il nonno a Soncino sotto le bombe. La terza l'ho passata più nei rifugi che sui banchi. Ero un bambino vivace, con due miti: Coppi e il Grande Torino. I ritagli di allora su Coppi, Gazzetta e Calcio e Ciclismo Illustrato, li ho ancora tutti. Il viaggio di nozze, in 1100, l'avevo organizzato da Coppiano. Andiamo in Francia, ho detto a mia moglie. Ma già a Grosseto la batteria fa i capricci, ci fermiamo in un alberghetto, ripartiamo il giorno dopo: Sanremo, Montecarlo, Nizza, poi via verso l'interno: Grenoble, l'Alpe d'Huez, l'Izoard, le montagne di Coppi. E sul Galibier ho capito lo spazio che c'è tra storia e leggenda. Quando Coppi è morto non potevo andare al funerale, ma con la bella stagione ho organizzato un viaggio in bici da Soncino al cimitero di Castellania. Sì, avevo la macchina, ma era un pellegrinaggio più che una gita e volevo andare in bicicletta, quella che sognavo da bambino e non ho mai avuto. Ho smesso in quinta elementare, c'era da dare una mano in casa, ero l'aiuto di un sarto, mi piaceva. I calzoncini della mia prima squadra, nata tra amici, li ho cuciti io. L'avevamo chiamata Virtus, ci sembrava un bel nome. Ma i giochi più pericolosi erano con le bombe. Nel '45 portavo bombe e nastri di mitragliatrice ai partigiani che sparavano giù della Rocca. I tedeschi si arrendevano e sul camion lasciavano di tutto, una pacchia per la gente: coperte, scarponi, ma io prendevo solo baionette e maschere antigas. Facevamo i fuochi d'artificio con la polvere da sparo, ma un giorno al fiume accade un dramma. La guerra era finita, ma gli ex partigiani usavano le bombe per pescare. In un'ansa era rimasta una bomba chiara, più grande. Diversa dalle altre, e noi ragazzini a provocare: vediamo chi ha il coraggio di andarla a pescare. Io, anche se era un bel quattro metri sotto. La porto a riva e uno più grande, sui 15 anni, dice: lasciate fare a me, ci penso io. Eravamo in sette. Grande botto, schegge dappertutto, una mi trancia la falange di un pollice, vede? Passa il mugnaio col carretto e ci carica per andare all'ospedale. Ne manca uno, gli dico. Torniamo indietro, il ragazzo era già morto. Da quel giorno ho chiuso con le armi. Lo sport ha la faccia di don Giovanni, il prete dell'oratorio. Oltre a farci giocare a calcio con una palla di stracci, organizzava le Olimpiadi soncinesi. Salto in alto, in lungo, 100 metri e maratona, che poi era due volte il giro delle mura, circa 5 km. E vincevo tutto io. Ah, e poi suonavo il clarinetto nella banda di Soncino, ci sono entrato sperando di avere la tromba. Verdi, Donizetti, Puccini, ma anche le serenate che allora usavano nei paesi. Fino ai 15 anni suonavo per un piatto di pane e salame e gli altri pomiciavano. Ho iniziato nella Soncinese, da attaccante: 17 gol in 12 partite. Poi alla Cremonese, in D e in C, sono diventato difensore. Poi mi ha preso la Roma. Buffo".

In che senso?
"Avevo provato con l'Inter, vincendo il torneo di Sanremo e realizzando il rigore decisivo, e col Bologna. Mai saputo chi e come mi abbia segnalato alla Roma. La Cremonese mi aveva pagato 500mila lire e mi rivendette per 8 milioni, un buon affare. A 19 anni mi ritrovo a Roma, un mondo da scoprire. Senza sapere che con la maglia giallorossa giocherò 386 partite di cui 299 da capitano. E che mi chiameranno Core de Roma, ma anche Palletta perché saltavo come se rimbalzassi. Oggi la chiamano forza esplosiva, allora un difensore non era valutato solo in centimetri. E io, come difensore, sui palloni alti non stavo incollato all'attaccante, anzi. Sui corner, mi piazzavo sul primo palo, importante era capire in anticipo dove sarebbe andato il pallone, e a quel punto saltavo con una breve rincorsa. Giocavo sulla palla, non sull'avversario. Sarà anche vero che oggi il calcio più veloce e tecnico, ma mi sembra troppo esasperato e meno pulito, quasi più una recita che uno sport. Ma lo sa che ci sono ragazzini di 12 anni col procuratore? A quelli che alleno, al Nuova Valle Aurelia, insegno il rispetto delle regole. Che sono importanti. Io, per tanti anni capitano, all'arbitro mi rivolgevo dandogli del lei e con le mani sempre dietro la schiena. Oggi vedo cose da Far West, placcaggi, insulti, gestacci e cose così. Non va bene".

Ricordi in campo?
"Ghiggia marcato in allenamento. Gento all'esordio in Nazionale. Me la sono cavata bene, anche se abbiamo perso. Uno con cui non l'ho mai vista, Garrincha. Aveva una gamba più corta, veniva avanti ciondolando, come stesse per cadere, fintava da una parte e partiva dall'altra. Ho marcato Bobby Charlton quand'era ala sinistra, ho marcato Charles, Sivori, Altafini, uno dei più pericolosi, Jair, Corso, Virgili, Jeppson, Vinicio e tantissimi altri. Chi m'ha fatto pi soffrire è Brighenti, con una gomitata all'arcata mi ha aperto uno squarcio, 12 punti di sutura, mai pensato che l'avesse fatto apposta. Giocavo sull'anticipo. Mai espulso e una sola ammonizione, all'ultima partita in A, a Verona. Loro avevano Bui e Traspedini, veloci e grintosi. Santarini, stopper, andava sempre avanti, spronato dal Mago, loro partivano in contropiede e io mi sono arrangiato. Al terzo intervento l'arbitro Motta di Monza mi ha detto: mi spiace, Losi, ma devo ammonirla. Ci sono rimasto male, ma era giusto così".

Lei con Helenio Herrera non legò molto.
"Credo fosse geloso della mia popolarità in città, anche se non la facevo pesare. Andavamo nei club dei tifosi e chiedevano l'autografo prima a me che a lui. E sì che quand'era all'Inter mi voleva. Parlai con Allodi: Mino, quanto prendi a Roma? Glielo dissi. Ti diamo il triplo, disse lui. No, dissi io, queste cose non le faccio. Così presero Picchi. A Herrera non ho mai perdonato di aver fatto rientrare la squadra da Cagliari quando Taccola morì sul lettino dello spogliatoio. Io non c'ero, ero a Roma, e mi toccò andare a informare la famiglia di Giuliano. Forse a Herrera non faceva piacere che io rifiutassi la pillola quotidiana di Evoran, gliele procurava il massaggiatore Wanono in Francia. Mai presa, e dicevo ai compagni di starci attenti. Lui diceva che erano vitamine, ma noi cosa ne sapevamo?".

I momenti più neri, per lei?
"Quando l'allenatore Lorenzo organizzò la colletta tra i tifosi al Sistina, e io, il capitano, giravo con un secchio tra le file a raccogliere i soldi. Settecentomila lire in tutto. Le mandammo agli alluvionati. Brutto periodo, quello. Non ci volevano negli alberghi, non ci volevano nei ristoranti, società piena di debiti. Un altro brutto momento fu quando la Roma mi fece fuori mandandomi a casa un usciere con una busta: dentro c'era il mio cartellino e una breve lettera di ringraziamento, più formale che altro, in cui si diceva che avrebbero organizzato per me la partita d'addio. Cosa mai avvenuta".

I più belli?
"Uno dei più belli, certamente il più curioso visto con gli occhi di oggi: il 25 aprile del 61 a Bologna, Italia-Irlanda del Nord, 3-2 per noi, marco bene Mc Parland. Il giorno dopo a Roma c'è il ritorno della semifinale di Coppa delle Fiere con l'Hibernian, 2-2 all'andata. Prendo il treno e vado all'albergo dov'è in ritiro la squadra, per far sentire il tifo del capitano. Piove molto, avvantaggiati loro, Foni, l'allenatore, mi fa: cosa diresti se ti chiedessi di giocare stasera? Non me l'aspettavo. Se i compagni sono d'accordo, gioco, ho detto. Evviva, pacche sulle spalle: gioco. E sono utile, perché sul 3-3 a pochissimo dalla fine tolgo dalla linea di porta un loro tiro che avrebbe significato l?eliminazione. Così si va alla bella, 6-0 per noi e poi, col Birmingham, grazie a un immenso Cudicini 0-0 là e 2-0 qua: prima coppa europea nella storia della Roma. Tra le cose belle ci metto anche l'amicizia con Di Stefano, nata durante una tournée in Venezuela: Roma, Real, Porto e Vasco da Gama. Col Real eravamo nello stesso albergo, noi avevamo portato scorte alimentari dall'Italia e grattavamo il Parmigiano sulla pastasciutta. Lui savvicina al tavolo e chiede: cosa ci mettete sopra? Un nostro formaggio. Posso assaggiare? Ma è meraviglioso. Come posso averlo a Madrid? Mi dai il tuo indirizzo e te lo spedisco io. Così ho fatto e da lì siamo diventati amici, sono stato a casa sua, ho visto il monumento al pallone. Adesso le mostro una cosa". Fruga nel portafogli e ne estrae un ritaglio di giornale piegato con cura, una fotografia.

"Spagna-Italia vecchie glorie, capitani io e Di Stefano. Il più grande di tutti, fortuna che non ho mai dovuto marcarlo. Un altro bel ricordo è personale. Mio padre veniva ogni tanto a vedermi giocare, ma senza dirmelo. Un giorno me lo ritrovo vicino al nostro pullman, a San Siro. Sai Mino che hai imparato a giocare a calcio, adesso? Cazzo papà, ho 32 anni, ho pensato. Ma non l'ho detto. Ho preso quella frase come una medaglietta da appuntare al cuore".

La carriera
Giacomo Losi, nato il 10 settembre 1935 a Soncino (Cremona), ha giocato con Cremonese (dal '52 al '54) e con la Roma (dal '54 al '69): in giallorosso 386 partite di campionato, due Coppe Italia e una Coppa delle Fiere vinte In serie A ha segnato due gol. In nazionale 11 presenze complessive, l'esordio il 13 marzo del 1960 in amichevole contro la Spagna. Ha partecipato ai Mondiali del '62 in Cile, dopo il quale non è più stato convocato in azzurro

(quarta puntata) Pubblicato su Repubblica il 17/2/2014

(24 luglio 2014)
 
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Giovanni Lodetti, il mediano che giocava con Rivera e i ragazzini: "Oggi sono tutti tristi"
Giovanni Lodetti, il mediano che giocava con Rivera e i ragazzini: "Oggi sono tutti tristi" Giovanni Lodetti

Pubblichiamo, per la prima volta su internet, dodici articoli che Gianni Mura ha scritto lo scorso inverno per le pagine sportive del lunedì di Repubblica, sulla sua squadra ideale del passato: ma la formazione, allenatore compreso, non è stata scelta solo per la tecnica. Questa è la sesta puntata

Con Giovanni Lodetti si può partire da una foto che sa di cinema neorealista. E' dell'ottobre 1963. Il sacerdote sulla sinistra potrebbe essere Aldo Fabrizi. Al centro, il ventunenne Lodetti, titolare nel Milan, palleggia circondato dai bambini del suo paese ( è Caselle Lurani, nella Bassa lodigiana, allora non faceva più di 500 abitanti) sul campetto dell'oratorio, dietro la chiesa. "Don Giovanni Delle Donne si chiamava il prevosto. Nonché proprietario del mio cartellino. La domenica giocavo due partite, al mattino coi ragazzi, al pomeriggio con quelli più grandi. Non mi è mai pesato. Poi ho lavorato da garzone meccanico per dare una mano in casa. Eravamo quattro fratelli, due sono morti giovani. Mio padre era falegname. El danè dana, ripeteva mia madre, il danaro danna, ma forse era un modo per consolarsi di essere poveri. Il mio primo ingaggio me l'ero trovato con la Pejo, a Milano. Quando sono andato a dirlo al prevosto ha tirato un pugno sul tavolo che sembrava un tuono. Niente da fare, per te ho altri piani. Cioè il Milan, un anno dopo. Mi ricordo che c'era la festa di san Giuseppe e arriva un dirigente del Milan, Trapanelli. Mi hanno pagato centomila lire e una muta di maglie. Ma l'esame vero fu due mesi dopo, al campo Scarioni. Promosso. Al Milan ho trovato i due allenatori che mi hanno insegnato di più. Nelle giovanili, Mario Malatesta: di lì sono usciti Noletti, Trapattoni, Trebbi, Salvadore, Pelagalli, Ferrario, Bacchetta. E poi Liedholm, che curava molto la parte tecnica. Mi aveva ribattezzato Bikila".

E' stato difficile passare da Caselle Lurani a San Siro?
"E' stato più difficile capire come funzionavano le cose. Ero aggregato alla prima squadra, ad Asiago, e dovevo firmare il mio primo contratto. Prima, in meno di quattro ore, Viani e Rocco avevano già sistemato tutto con la prima squadra. Viani e Rocco erano due omoni che mettevano soggezione anche da seduti, dietro a un enorme tavolo ovale, al primo piano dell'albergo. Entro e dico buongiorno, loro stanno leggendo uno la Gazzetta e l'altro il Corriere. Non mi filano neanche di striscio. Dopo dieci minuti Rocco dice a Viani: Gipo, visto che el mulo xe riva', domandighe quanto ch'el vol. Quanto vuoi? dice Viani. Tre milioni l'anno e l'entrata nella rosa, dico. Significava essere considerato quasi titolare e prendere l'80% dei premi-partita. Viani riprende a leggere e dopo qualche minuto fa: la rosa te la devi guadagnare e più di un milione non ti diamo, prendere o lasciare. E Rocco: Gipo, fa 'l bravo, femo uno e mezzo. Ho firmato subito, poi ho capito che era tutta una recita, come i due poliziotti nei telefilm americani, uno ti dà uno schiaffo e l'altro ti offre una sigaretta" .

Qual è stato il giorno più bello, da calciatore?
"Sarebbe facile parlare delle Coppe dei Campioni o dello scudetto o dell'Intercontinentale. Per me il giorno più bello è stato quello del provino alla Scarioni. Perché il treno buono passa una volta sola. O sali o resti giù. Dal mio paese c'erano due corriere per Milano, alle 6 e alle 12. Ho preso quella delle 6 per non rischiare. Fermata a piazzale Corvetto, poi la 93 fino a Lambrate e poi a piedi allo Scarioni. Ricordo che c'era un caldo della Madonna, nessun genitore, nessun parente, solo il prevosto che s'era messo in testa un fazzoletto con le quattro cocche. Gioann, famm fa' bela figura, mi disse. Da questo punto di vista non ho rimpianti, ho sempre giocato con la stessa passione che avevo all'oratorio. Sempre, anche da professionista. Il primo choc è stato dopo l'esordio in A, a Ferrara. 3-0 per noi. E martedì, all'Arena, Maldini mi mette in mano il mio primo premio-partita, 100mila a punto, quindi 200mila, per me 180. Diciotto fogli rosa, tant'è che li chiamavano salmoni, grandi come mezzo tovagliolo. Per paura che in tram me li rubassero sono andato a piedi dall'Arena al Corvetto e prima di cena li ho consegnati a mio padre, che guadagnava 45mila al mese. Li ha presi, li ha contati lisciandoli sul tavolo, dopo il sesto già mia mamma piangeva. E alla fine papà m'ha detto brao Gioannin e se li messi in tasca. Un po' ci sono rimasto male, speravo che almeno un deca ma lo lasciasse, ma mi è passata subito".

E la ferita dei mancati mondiali in Messico, dopo quanto s'è chiusa?
"E' rimasta aperta e mi ha fatto male per anni. Meno da quando credo di aver capito cos'è realmente successo.
Tutti sanno che s'infortuna Anastasi e al suo posto ne convocano due, Boninsegna e Prati. Uno di quelli già in Messico da qualche giorno dovrà tornare a casa, ma noi del Milan sapevamo che Prati aveva una caviglia acciaccata e non era in grado di giocare, infatti non giocò. Sandro Ciotti mi mise una pulce nell'orecchio: se hanno chiamato uno del Milan e uno dell'Inter, non credi che toccherà tornare a uno del Milan o dell'Inter? Ci, speremo de no, gli ho detto facendo il verso a Rocco. Anche perché dai test ero uno di quelli più resistenti all'altura. Quando il massaggiatore mi ha detto che mi volevano i capi, l'ho capito. State sereni, ho detto ai compagni. Nella stanza c'erano Mandelli, il capodelegazione, Valcareggi, il dottor Fini e un altro dirigente. Ci spiace, Lodetti, ci addolora, ma siamo costretti a tagliarti. Ma non ti preoccupare, convoca tua moglie, per tutta la durata dei mondiali sarete ospiti della federcalcio ad Acapulco e riceverai lo stesso premio che daremo agli altri".

E lei?
"Io gli ho detto che erano delle facce di merda, che non si pu umiliare così la brava gente e che sarei tornato in Italia col primo volo, cosa che ho fatto. E del premio ne ho visto meno della metà , ma non m'interessava. Continuavo a non capire perché dovessi tornare a casa io per far posto a un Prati zoppo. Continuavo a chiedermi se avevo sbagliato qualcosa, ma andavo d'accordo con tutti. Da qualunque parte la girassi, era un'ingiustizia bella e buona, anzi brutta e cattiva. E non lo sapevo, ma era solo il primo tempo del film che mi avrebbe cambiato la vita e la carriera. Dopo il Messico e prima delle ferie, bel discorsetto di Carraro: il Milan deve ritornare al rango che gli compete, Lodetti è stato umiliato prima del via, Rivera coi sei minuti, sarà la stagione del riscatto. Bene, vado al mare in Versilia e dal bar della spiaggia mi dicono: c'è il Milan che ti vuole. E' la Rina, la segretaria: Giovanni, ti passo il tuo nuovo presidente. Com'è, non c'è più Carraro? No, sei tu che vai via, ti hanno dato alla Samp, ti passo il dottor Colantuoni. Mi è cascato il mondo addosso".

Presagi, nell'aria?
"Nessuno. Dal Milan alla Samp voleva dire non giocare più per gli scudetti, né per le coppe, ma per salvarsi magari all'ultima domenica. Ma non si poteva rifiutare. E la Samp aveva ben tirati i cordoni della borsa. Ho chiesto a Carraro di darmi una mano per ammorbidire Colantuoni e lui m'ha risposto secco: non posso, lei non più un giocatore del Milan. Così sono andato a Genova, allenava il dottor Bernardini che mi ha dato subito la fascia da capitano, e mi sono anche trovato bene. E tra i ricordi più belli conservo il premio al miglior doriano della stagione, quello dato dai tifosi, sì, quello che non ha voluto ritirare Cassano, quel pirlotto. Ovviamente la ferita non si è chiusa, anzi è stato peggio. Perché nessuno del Milan in quei giorni mi ha fatto una telefonata: non Rocco, non Rivera, nemmeno il Trap, che eravamo sempre insieme e ci chiamavano le due cocorite. Nessuno: cancellato io coi miei dodici anni di Milan. E questa non l'ho ancora capita adesso. Non finirò mai di ringraziare mia moglie Rita, una donna eccezionale. Se non c'era lei con me, non so come sarebbe andata a finire".

Del Messico ha poi capito, giusto?
"Parlando col dottor Bernardini ho saputo che il Milan da mesi faceva la corte a Benetti. Aveva offerto, in ordine sparso, Malatrasi, Trapattoni, Sormani, ma Bernardini aveva detto: si fa l'affare solo se ci date Lodetti. Quindi, ero da sacrificare a un interesse di mercato. Meglio se saltavo il Messico, c'era il rischio che giocassi bene. Dopo cena, andavo sempre a fare una passeggiata con Bearzot e lui mi tranquillizzava: figurati se vai a casa tu, e poi chi corre? Bearzot era una persona onesta, se fosse stato al corrente non mi avrebbe preso in giro. La vicenda nata sopra le nostre teste, è nata al Milan".

E da allora ce l'ha con Rivera?
"No, da dopo. Voglio precisare che Gianni è il più grande calciatore italiano che ho visto, per fantasia e preveggenza del gioco. Degli stranieri che ho marcato, la trinità è Di Stefano, Bobby Charlton e il mio amico Suarez. Lo marcavano, Rivera, ma si faceva trovare smarcato. Non è vero che non correva. Correva, ma io correvo il doppio ed ero orgoglioso di correre anche per lui, perché ci faceva vincere. Per me, fuoriclasse è Bolt e fuoriclasse Coe, ma è un discorso lungo. Rispondo alla domanda. A Genova ho fatto il corso da allenatore di terza categoria, buono per le giovanili. Corso tenuto da Giovanni Ferrari, non dal primo che passa. Sono arrivato primo su 70, massimo dei voti, 120. Quando Rivera è diventato presidente del Milan gli ho telefonato per dire che avrei fatto volentieri l'allenatore di ragazzini, mi andava bene tutto. Freddino, mi ha detto che al momento non c'erano possibilità e mi avrebbe fatto sapere. Dopo tre mesi di silenzio ho saputo che il posto l'aveva dato a Ferrario. E con lui ho chiuso, senza rancore ma anche senza una gran voglia di rivederlo o richiamarlo. L'ho rivisto dopo una trentina d'anni fuori Bologna, al paese di Bulgarelli, quando hanno intitolato il campo a Giacomino, che era stato mio testimone di nozze, e io il suo. E con Rivera abbiamo ripreso a parlare. Ma sa perché mi spiace che non mi abbia chiamato? Perché sarei stato un bravissimo allenatore, con una vocazione nata all'oratorio. E per primo allenamento avrei convocato la squadra alle 7 di mattina, in una stazione affollata di metrò, e gli avrei detto: questi qui fanno i sacrifici, non voi. Quando mi chiedono la differenza tra il calcio dei miei tempi e quello di oggi rispondo che il controllo telefonico di Cattozzo, un tecnico del Milan, era al telefono di casa alle 22.45. Se non rispondevi, multa. Invece a quell'ora o anche più tardi molti oggi escono di casa per andare in discoteca. Io ci ho messo quasi due anni a farmi una 600, Niang aveva la Ferrari appena arrivato al Milan. Ma non so se sono felici, hanno tutto in apparenza ma non la passione .

Con cui lei ha giocato fino a quando?
"Fino al 2007. Poteva essere l'82, avevo smesso, ero al parco di Trenno a fare footing e mi fermo a vedere una partita di ragazzi sul campo a 11. Mi metto dietro una porta e chiedo al portiere: mi fate giocare? Ma non vedi che siamo tutti giovani, cosa entri a fare? ha detto lui. Ho insistito: una squadra è in dieci, e sotto 4-1. Va bene, entra. E' finita 4-4 e me la sono cavata bene. Come ti chiami? Ceramica, ho risposto. Avevo una giacca a vento con su scritto ceramica, non volevo fare il bauscia. Mi hanno accettato e per due anni, ogni sabato alle 9.30, per loro ero Ceramica. Finché non è passato uno anzianotto in bici, mi ha squadrato per bene e poi ha detto: ragazzi, ma lo sapete chi è quello lì ? E' uno del Milan, l'ho visto cancellare Bobby Charlton. Finito l'anonimato, siamo andati avanti fino al 2007. A mia moglie dicevo che andavo a giocare a tennis, sennò stava in pensiero. Le scarpe da calcio numero 42 coi tacchetti di gomma me le portavano a Trenno. Solo quando mi sono incrinato quattro costole ha capito che non giocavo a tennis".

Rimpianti?
"Quelle due ferite, ma sono felice. Gli anni tra il '60 e il '70 sono stati i più belli del secolo, non solo per il calcio, se lo faccia dire da uno che non ha studiato. C'era più lavoro, più speranza, più passione, c'era come qualcosa nell'aria che adesso non c'è più" .

(sesta puntata) Pubblicato su Repubblica il 17/3/2014


(28 luglio 2014)
 
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Furino, il mediano con due cuori che spegneva i campioni
"Ma a Sivori feci un tunnel"

Pubblichiamo, per la prima volta su internet, dodici articoli che Gianni Mura ha scritto lo scorso inverno per le pagine sportive del lunedì di Repubblica, sulla sua squadra ideale del passato: ma la formazione, allenatore compreso, non è stata scelta solo per la tecnica. Questa è la settima puntata

MONCALIERI - Quando Giuseppe Furino giocava, molti scrissero che la classe operaia era andata in paradiso: 8 scudetti, record diviso con Virginio Rosetta e Giovanni Ferrari, ma Furino con una sola maglia, quella della Juve. Capitano e bandiera, insomma.

"Capitano sì, bandiera no. Non mi è mai piaciuto l'accostamento con le bandiere, che stanno alte in cima a un pennone. Io stavo rasoterra, a lottare".

Questa puntualizzazione è la prima di una serie di sorprese. Chi l'ha visto giocare, un impasto caldissimo di corsa e agonismo, incollato come un'ombra minacciosa ai numeri 10, pensava a una vecchia definizione di Nereo Rocco per i numeri 4: distudaferai, che tradotto dal triestino significa spegnilampioni. Furiafurinfuretto l'aveva ribattezzato Vladimiro Caminiti, palermitano come lui, su Tuttosport. Mi sono portato un ritaglio: "Nella sua storia leggendaria la Juve ha avuto eccelsi gregari. Ma nessuno all'altezza di questo nano portentoso, incontrista e cursore, immenso agonista, indomabile nella fatica, i piedi come uncini dolorosi in certe circostanze".

Che gliene pare?
"Un poeta, Vladimiro. Ma io non sono d'accordo con gli uncini, perché mi sono sempre sentito un giocatore tecnico, veloce e anche tattico, non solo un cursore assiduo, come si diceva allora. Il calcio è anche corsa, ieri come oggi. Ma rispetto a quelli di oggi noi camminavamo e avevamo un ritmo costante più basso. Era un altro calcio. Anche noi, che pure eravamo la Juve, avevamo due maglie per tutta la stagione, una per il caldo e una per il freddo. E quando si strappavano venivano rattoppate. Più importante il fatto che sui campi ci fosse un solo pallone. Bastava buttarlo in tribuna per guadagnare un mezzo minuto in cui tirare il fiato. Oppure toccavamo indietro al portiere, che poteva usare le mani e faceva passare un altro mezzo minuto abbondante. Oggi questo non è più possibile, i giocatori corrono di più, forse troppo. Sono impressionato dall'alto numero di incidenti muscolari, spesso senza contatto con l'avversario. Il mio primo stiramento l'ho avuto a 30 anni. E giocavamo su campi più brutti, pelati in mezzo al campo, erba solo sulle fasce".

Torniamo al concetto di giocatore tecnico.
"Da ragazzo il mio idolo era Omar Sivori, giocavo coi calzettoni abbassati e anche più tardi non ho mai messo i parastinchi. Quand'ero nelle giovanili della Juve a Sivori ho fatto un tunnel e ci è rimasto male: ragazzino, come ti permetti? Non l'ho fatto apposta, gli ho detto. Invece sì, era da mezzora che provava lui a farmi un tunnel, se l'era cercata. Da ragazzo, tra giovanili Juve, Savona e Palermo credo di aver indossato tutte le maglie, tranne l'1 e la 9. Sì, ho avuto la 10, tiravo rigori e punizioni. Ma un giorno ho visto Luis Del Sol e ho deciso che il mio vero ruolo era quello di mediano. E al mediano si chiedeva di marcare, essenzialmente. E il mediano che portava via la palla al 10, che molto raramente lo rincorreva, creava la famosa superiorità numerica".

Più difficile marcare Rivera o Mazzola?
"Due bei clienti. Mazzola era più imprevedibile quando giocava di punta, Rivera sempre. Ma chi mi ha messo più in difficoltà è stato Menti, un pennellone del Vicenza. A volte ho fatto anche lo stopper. Un pomeriggio a Firenze Salvadore mi dice: quello lì lo marchi tu perché a me fa sempre gol. Quello lì era Amarildo. Ma anche contro Van Himst, un armadio, me l'ero cavata bene. Ci sono dettagli che forse a voi giornalisti sfuggivano, ma ogni volta che avanzava Scirea o si buttava Tardelli ero io a coprire. Più che il guardiano di un avversario, mi sentivo il custode di un territorio. Per questo la canzone che Ligabue ha scritto pensando a Oriali la sento anche un po' mia, perché una vita da mediano l'ho vissuta".

A noi giornalisti non sfuggiva che Furino, etichettato come brutto, sporco e cattivo, bello non era. Basso di statura, gambe arcuate da fantino, capigliatura non abbondantissima, però quanto a gioco sporco e cattivo si vedeva di peggio. Era sempre appiccicato come un tafano o un polpo, toglieva aria, spazio e fantasia. Boniperti un giorno disse che Furino aveva due cuori. Boniperti capiva di pallone ed era arduo contraddirlo. Per lui Furino era il capitano ideale, un simbolo di juventinità.

A proposito, Beppe, cos'è la juventinità?
"E' senso di appartenenza, condivisione dei valori. E' saper accettare le vittorie e anche le sconfitte, questo vale per i giocatori e anche per i tifosi. Troppo comodo tifare solo quando si vince. Le racconto una cosa: torniamo da Bilbao sull'aereo dell'Avvocato con la coppa Uefa, primo trofeo europeo nella storia della Juve. Scendo dalla scaletta a Caselle con la coppa in mano e sulla pista ci sono i tifosi, e in prima fila osannante uno che conosco di vista. Uno che l'anno prima, quando il Toro ci sorpassò e vinse lo scudetto, ci aveva gridato gli insulti peggiori. Lui e altri, alcuni piuttosto balordi tant'è che per un po' fummo costretti ad allenarci a Villar Perosa. Con gli occhi li avevo schedati tutti. E quindi a questo dico secco: o vai via o ti spacco la coppa in testa. Non l'avrei mai fatto, ma lui ci ha creduto ed è sparito".

Il Toro, annessi e connessi.
"Se c'era casino, io c'ero. Ma anche loro. A Causio cominciavano a stuzzicarlo già nel sottopassaggio, lui s'innervosiva e rendeva la metà. Noi facevamo la partita, loro i gol. Loro vincevano molti derby, ma il campionato no, tranne uno. Secondo me a farci perdere dei derby, a parte che il Toro contro di noi giocava la partita della vita, è stato anche Boniperti. Rompeva le palle già dal lunedì. Mi raccomando, ragazzi, domenica c'è il derby. E così martellando fino alla domenica. Arrivavamo allo stadio due ore prima, tesi ma pure stanchi, come ne avessimo già giocati due. Uno come me era Ferrini. In campo come cane e gatto, certo, ma il mio sogno era quello di giocare a centrocampo con Ferrini e Bulgarelli. Per i tifosi avversari ero un po' una merda, lo so, ma quando prendevo due tram per andare a Piazza d'Armi e sul campo mi spronava il mitico Cesarini, io non pensavo a diventare un calciatore famoso. Pensavo solo a giocare. Intanto, dicevano i miei, prendi un pezzo di carta, e l'ho preso, perito elettronico. Non mi hanno né ostacolato né spronato. Nessuno mi ha mai accompagnato all'allenamento".

Che famiglia era?
"Del sud. Mio padre napoletano, mia madre di Ustica, dove passavamo le vacanze. Nonno Peppino era stato sindaco dell'isola, poi aveva aperto uno di quei negozi dove si vende un po' di tutto. Uno dei primi ricordi è di mio padre che suona il mandolino sotto il pergolato. Quel mandolino ora ce l'ha mio fratello, ma ho deciso che quest'anno prenderò lezioni, voglio imparare a suonare il mandolino. Torniamo indietro: nasco a Palermo, dopo sei mesi la famiglia si trasferisce ad Avellino, poi a Napoli. Quando mio padre viene mandato a Torino ho 15 anni e sono già inguaribilmente juventino".

Quanto manca il clima della partita?
"Arriva il momento in cui ti senti o ti fanno sentire troppo vecchio per il pallone. Mi manca di più il clima dello spogliatoio, le visite di Gipo Farassino, lui sì un tifoso vero, le partite a scopa col dottor La Neve e il massaggiatore Di Maria, gli scherzi, l'allegria. Del calcio ho molti ricordi e un buco nello stinco che m'ha fatto Perico ad Ascoli. Ero amico di tutti i compagni ma, al di fuori, non frequentavo nessuno. Ho aperto questa agenzia di assicurazioni che ancora giocavo, nel '79, e continuo ad occuparmene. E nel tempo libero, gioco a golf".

Ecco un'altra sorpresa. Furino che gioca a golf.
"E mi piace. Pensavo che i golfisti fossero degli smidollati, ma sbagliavo".

Difficile dire basta col calcio?
"No. E dire che Totò Juliano si era scomodato venendo a Torino per convincermi ad accettare il Napoli. E Sergio Rossi, presidente del Torino, aveva tastato il terreno offrendomi una maglia granata. Non era il caso".

Perché non ha fatto l'allenatore?
"Errore di presunzione. Non avevo le presenze in azzurro di Zoff, che ha avuto automaticamente il patentino, e non ritenevo decoroso, con la mia carriera, dover sostenere esami supplementari".

Solo tre maglie azzurre.
"E una sola partita completa, a Istanbul nel '73, in nove della Juve in azzurro con l'obbligo di vincere per andare al mondiale. Vincemmo e in spogliatoio Valcareggi disse ai giornalisti che con me avevano risolto il problema del mediano per qualche anno. Mazzola era seduto di fianco a me: Beppe, non devi credergli, disse. E infatti non fui più convocato. Ma in Messico c'ero. Poteva andare diversamente con una miglior gestione degli uomini: alcuni furono bolliti, altri non giocarono quasi mai".

E ad Atene con l'Amburgo poteva andare diversamente?
"Sbagliò Trapattoni che non mi mandò in campo. No, scherzo, quando tutta la squadra dà il 10% di quello che può dare e a deludere maggiormente sono i più attesi, Boniek e Platini, non c'è niente da fare".

Andava d'accordo con Platini?
"Per la stampa era facile metterci contro: se lui stentava era colpa mia. Ma non esiste che uno giochi male per colpa di un altro. A Michel serviva tempo per ambientarsi, tutto qui".

A proposito di stampa, Furino non ha mai cercato i giornalisti e quando i giornalisti cercavano lui era come accarezzare un istrice. L'unica figlia di Furino, Ludovica, fa la giornalista a Gioia. E' la legge del contrappasso.

(settima puntata) Pubblicato su Repubblica il 10/2/2014
(30 luglio 2014)
 
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PAG Posted on 1/8/2014, 11:50     +1   -1
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Bruni Nicolè (in piedi) con Omar Sivori

Nicolè, il bel centrattacco che pesava troppo: "Il calcio? Dimenticato"

Pubblichiamo, per la prima volta su internet, dodici articoli che Gianni Mura ha scritto lo scorso inverno per le pagine sportive del lunedì di Repubblica, sulla sua squadra ideale del passato: ma la formazione, allenatore compreso, non è stata scelta solo per la tecnica. Questa è la ottava puntata

VICENZA - PER Bruno Nicolè, padovano, classe 1940, si può partire da un titolo: "Habemus Piolam: Ni-co-lè?". Lo dettò Gianni Brera al Guerino dopo Colombes, nel novembre del '58. Allo stadio di Colombes l'Italia affrontava la Francia in amichevole. Non una Francia qualsiasi, quella terza ai mondiali in Svezia, pochi mesi prima, eliminata in semifinale dal Brasile, ma ancora capace di un 6-3 ai campioni uscenti, i tedeschi, per il terzo posto. Miglior goleador Just Fontaine, 13 reti. Fu lui a pareggiare a 6' dalla fine, perché dopo l'1-0 iniziale di Vincent segnò due gol in pochi minuti (57' e 65') un esordiente in azzurro, bel fisico, capelli ondulati. Nicolè. "Il primo su angolo battuto da Bean, testa di Galli, il portiere Colonna respinge corto e io la butto entro, sempre di testa. Il secondo: Segato mi passa la palla, prolungo sulla sinistra per Bean che me la ridà sul lato corto dell'area. Appena dentro, destro incrociato, molto forte. Sul 2-1 ho anche preso un palo, forse sarebbe stato il gol più bello. A fine partita un signore mi mette in mano un bigliettino. Grazie a nome di tutti i minatori veneti che lavorano in Francia, c'era scritto".

Il nuovo Piola non dura tanto. A 27 anni ha già chiuso col calcio. Gli restano due record: più giovane marcatore in azzurro (18 anni e 258 giorni) e più giovane capitano della Nazionale (21 anni e 61 giorni). "Fu a Bologna con l'Irlanda del Nord, che ci aveva eliminato nelle qualificazioni per la Svezia. Esordio di Sivori. Giocai con uno stiramentino, come facevo a dire di no?, e poi pagai questa leggerezza. Avevo un fisico imponente ma delicato, e perdipiù se stavo fermo due giorni per infortunio ingrassavo di chili. Un difensore si può dribblare, ma la bilancia no". Storia singolare, quella di Nicolé.

Scandita da quattro periodi: l'attesa, l'affermazione (fin troppo rapida), il declino (fin troppo rapido, a sua volta) e la nuova vita da insegnante di Educazione fisica per una trentina d'anni, in centri del basso Friuli: Prata, Brugnera, Pocenigo, San Quirino. Vive ad Azzano Decimo. E' andato in pensione nel 2001. Resta da spiegare perché questo pezzo sia datato Vicenza. Perché al telefono Nicolè m'aveva detto: "C'è nebbia in questi giorni, posso accorciarle il viaggio e ci vediamo a Vicenza, avevo già deciso di andare a trovare mio figlio". Fabio, il figlio, ha seguito le orme paterne (Isef) e lavora in una società calcistica, la Leodari, che cresce 270 ragazzi. "Gli unici risultati su cui m'informo sono quelli delle squadre di Fabio. Con tutto il resto del calcio ho chiuso. Non m'interessa, non lo dico per snobbarlo. Non guardo le partite in tv. L'accendo per le Olimpiadi e le Paralimpiadi, per i campionati di atletica, di nuoto, di volley, di basket. Vuole una sintesi? Ho amato lo sport e ho scelto il calcio. Poi ho amato il calcio e scelto lo sport. Tanti anni di insegnamento mi hanno arricchito molto più degli anni dedicati al pallone. Forse la scuola, la cultura erano nel mio destino. La mia prima moglie era insegnante di Lettere, la seconda di Matematica. Delle due figlie, Valentina è psicologa e Silvia ricercatrice in biotecnologie agrovegetali all'università di Padova. Spero non sia costretta ad andare all'estero, ma so che ci sta facendo un pensierino".

L'attesa. "A 14 anni mi ha preso il Padova, mi allenavo sul campo del velodromo Monti. Prima giocavo all'oratorio della Sacra Famiglia. Mi piaceva molto leggere e fare sport. Carlo, mio padre, aveva un'edicola in Ponte Molino, non lontano dalla stazione ferroviaria. Teresa, mia madre, mandava avanti una latteria sotto casa, in via Castelfidardo, vicino al campo d'aviazione. Due obiettivi sensibili, si direbbe oggi. Ricordo che un giorno scoppiarono tutte le finestre di casa, mentre stavamo mangiando. I miei rimasero in città, i figli li mandarono in campagna dai nonni, a Bastia di Rovolon. Tenevo al Toro e a Bartali, ero affascinato dalla voci alla radio: Nicolò Carosio, Mario Ferretti. Il Toro allora era come la Juve oggi, la squadra più forte, normale che un bambino scegliesse il granata. Dopo Superga, diventai juventino. Facevo corse in bici con gli amici, ero un buon saltatore in alto, se ero libero andavo anche a vedere il Petrarca giocare a rugby. Tenevo anche al Padova, ovviamente, già quello di Luisetto, Curti, Prunecchi. Andavo all'Appiani anche due ore prima della partita, già il profumo dell'erba mi emozionava, e la musica dall'altoparlante. Mio padre era un uomo di città, molto mite. Socialista, corrente Saragat perché Nenni gli sembrava già un po' troppo rosso. Mai messo piede in chiesa, lui. Ma ha lasciato che facessi il chierichetto senza protestare. Mia madre era una donna di campagna, sempre in movimento. Sapeva mungere, fare il formaggio, con una gallina dava da mangiare a un sacco di persone. Al Padova mi porta il mio primo maestro, Mariano Tansini. Intanto, studio. Non si può mai sapere" .

L'affermazione. "Nereo Rocco allenava la prima squadra, quella dei famosi manzi che conquisterà un terzo posto. Capitava che verso sera passasse da via Castelfidardo. La prima volta che me lo son visto davanti sulla porta della latteria, accompagnato dall'oste Cavalca, manca poco che svengo. Cosa beve, signor Rocco? Un caffè, grazie. Niente vino, credo che una presenza femminile lo intimidisse. Venire in visita credo fosse un modo per farmi sentire il suo affetto. Umanamente, nel calcio come Rocco non ho trovato nessuno, ancora oggi mi sento coi suoi figli. Avevo 16 anni quando mi dice di aggregarmi alla prima squadra. Solita domenica: messa al Santo, pranzo da Cavalca, poi all'Appiani a piedi. Penso che mi abbia chiamato per fare esperienza più da vicino, invece appena siamo negli spogliatoi mi dice: Cambiati che giochi. Forse faccio una faccia strana, perché aggiunge: se te lo dicevo ieri non dormivi e adesso saresti uno straccio. In campo, fa' quello che ti senti di fare. Battiamo l'Inter 3-2, gioco piuttosto bene. Gira voce che la Juve sia interessata a me, mi ha segnalato Stivanello. Occhio, se vi gioca contro, ha detto a Nay: ha scatto e tiro. E arriva anche il giorno che a Padova c'è la Juve. L'avevo vista da tifoso vincere 2-0, gol di Mari e Martino, un argentino incredibile, uno dei miei idoli insieme a Boniperti. Stavolta vince il Padova, segno un gol anch'io su lancio di Rosa, dribblando Nay e Garzena e battendo Romano. Dal campo vedo Boniperti e dico che, con Rivera, è il più forte calciatore italiano che abbia mai visto. Sapeva fare tutto, dal centravanti al mediano".

La Juve, altro che interessata: 70 milioni più il prestito di Hamrin. Nicolè va a Torino, il primo anno da solo, poi lo raggiungeranno i genitori che hanno ceduto le rispettive attività.

"E' una Juve che vuole rilanciarsi alla grande, con Charles e Sivori. Il presidente, Umberto Agnelli, è giovanissimo. Gioco le prime partite con l'8, le altre col 7 che non m'è piaciuto ma non è questione di numeri. E' che non sono mai stato un'ala ma una punta centrale. Devo adattarmi e stare zitto, com'è giusto, perché al centro ci sono due mostri sacri come Sivori e Charles. Boniperti a centrocampo, Stacchini o Stivanello con l'11. Con Boniperti capita di fare le ferie insieme, a Lignano, dove ci s'incontra con Bearzot. Quando torno all'Appiani da avversario, Scagnellato mi fa un'entrata terrificante. Ma Aurelio, sei diventato matto? gli dico in dialetto. E lui, sempre in dialetto: la storia della riga la sai, eri dei nostri. Hai passato la riga. Se al posto tuo c'era mia madre con un'altra maglia buttavo già anche lei. Va be', il primo anno 21 partite zero gol, il secondo mi sblocco con il Napoli e tengo una media decente. Bilancio di quattro campionati: tre scudetti e due Coppe Italia, più una Coppa delle Alpi. Più la Nazionale e la Coppa dei Campioni. Indimenticabile il ritorno al Bernabeu. Loro avevano vinto 1-0 a Torino, noi vinciamo 1-0 con un gol di Sivori. Di Stefano, Puskas, Gento incutevano rispetto solo a vederli. Mi spiace di aver sbagliato un paio di gol, ne avessi segnato almeno uno non avremmo perso nello spareggio a Parigi perché non ci sarebbe stato spareggio. Sola consolazione, essere stati i primi italiani a vincere al Bernabeu".

Il declino. "Da calciatore pensavo molto, forse troppo. Pensavo che eravamo trattati benissimo ma bastava un calcio a un ginocchio per essere fuori da tutto, numeri e basta. Pensavo a Boniperti, diceva che conta solo vincere. Ma non si può vincere sempre. La Juve era cambiata, Agnelli si era dimesso, era arrivato Catella. Mi danno alla Roma in cambio di Menichelli. Una stagione in prestito a Mantova, forse sperando che mi ritrovi in provincia, poi torno a Roma. Presidente Sacerdoti, bravissima persona, e situazione economica sottozero, ma queste cose della colletta di Lorenzo gliele ha già dette Losi. Vinciamo una Coppa Italia, torno in Nazionale, insomma me la cavo ma mi ritrovo alla Samp e dopo pochi mesi in B, all'Alessandria. Avrei dovuto smettere prima, non ho smesso solo per il servizio militare da assolvere come atleta: prima il Car a Orvieto, poi a Bologna. Mi alleno poco ma soprattutto mi vergogno: l'Alessandria mi dà quello che prendevo alla Juve più quattro milioni di bonus anticipato. Qualcosa mi si è rotto dentro, lo intuisco, poi lo capisco bene. E' il momento di darci un taglio. Ho ritrovato l'entusiasmo da ex, giocando una stagione coi dilettanti del Prata. Campionato vinto, nessuna sconfitta. Il mio bilancio col calcio è in parità, ho avuto sfortune e fortune. Altri solo fortune, altri solo sfortune. Non posso lamentarmi. Forse tutto è ndato troppo in fretta, forse non ero pronto per una carriera da professionista".

La seconda vita. "Ho insegnato alle elementari, mi chiamavano le maestre per i Giochi della Gioventù, ho insegnato ai disabili, alle medie e negli istituti superiori. Ai ragazzi facevo scrivere temi su come vedevano o volevano lo sport, per conoscerli meglio. Magari uno non sa parlare ma sa scrivere, oppure uno è negato per il calcio ma si diverte col basket, importante è tenere accesa la passione nei ragazzi, non lasciarne uno indietro. Ai docenti di lettere il fatto che il professore di ginnastica desse temi scritti faceva arricciare il naso. Fortuna che il preside mi ha difeso: non è un'invasione di campo, è un appoggio al vostro lavoro. Ho portato a scuola le bocce, la dama, gli scacchi, il tennis da tavolo. Credo nelle scuole dello sport, all'estero ce ne sono da tempo e qui siamo in ritardo, ma a Maniago c'è un liceo scientifico con indirizzo sportivo che mi dà speranza. Conte, Mazzarri, Ventura, lo stesso Mourinho escono dall'Isef. Io a fare l'allenatore non ci ho mai provato, non ne sarei stato capace. Mi piace leggere e scrivere. Guardi, questa è la tessera da giornalista pubblicista. Scrivo i pezzi a mano, sui fogli protocollo. Oggi per denigrare i giornalisti li chiamano giornalai, ma per me giornalaio è una parola che profuma, come fornaio. Mio padre era giornalaio, non edicolante. D'inverno si portava lo scaldino. Apriva alle 5, un'ora di pausa pranzo e tornava in bici, alle 9. Alle 6 sono già sveglio e pronto a uscire per comprare i soliti giornali: Repubblica, che adesso mi dà anche la Nuova, Gazzettino e Messaggero Veneto, perché sto in una zona di frontiera. Posso andare alla stazione di Pordenone o a Portogruaro. Se trovo ancora chiuso, penso a mio padre e m'incazzo. Lo so che si vende sempre meno, ma non riesco a immaginare un mondo senza carta, senza il profumo della carta, senza la bellezza delle pagine sfogliate".

Neanch'io. Per gli amanti del genere segnalo che c'è la foto di Levratto e Nicolè nell'ultima riga di una canzone del Quartetto Cetra intitolata "Che centrattacco", composta nel 1959. Uatap m uatap m, cosi faceva l'inizio.

LA CARRIERA
Bruno Nicolè è nato a Padova il 24 febbraio del 1940. Ha debuttato in serie A da sedicenne nel Padova di Rocco e dopo un solo campionato passò alla Juve (a sinistra con Boniperti), dove ha vinto 3 scudetti e 2 Coppe Italia. Dal '63 al '65 ha cambiato 4 squadre: Mantova, Roma (1 Coppa Italia), Sampdoria e Alessandria, dove ha chiuso nel '67, lasciando a soli 27 anni. In Nazionale ha debuttato nel 1958 con la Francia segnando una doppietta. In azzurro è stato il più giovane marcatore e il più giovane capitano: solo 8 presenze.

(ottava puntata) Pubblicato su Repubblica il 31/3/2014

(01 agosto 2014)
 
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